domenica 6 settembre 2009

Poletto: "La crisi, il laicismo le ferite di Torino"

http://www3.lastampa.it/torino/sezioni/cronaca/articolo/lstp/51811/

"Tante famiglie in autunno saranno a rischio. Siamo la capitale della carità. Lavoro, c'è più attenzione"


FLAVIO CORAZZA

Cardinale Poletto, lei è arrivato 10 anni fa sulla cattedra di San Massimo, e stasera celebrerà una messa alla Consolata alle 18,15. Com’è cambiata la città da allora?
«Dieci anni fa conoscevo questa città per sentito dire. Sia sul piano ecclesiale che civile. Giungevo da Asti, e avevo il cuore pieno di timore e tremore. Mi affidai al Signore, chiedendogli un aiuto speciale per lavorare in una città così importante, affascinante ma complessa. La prima preoccupazione fu di conoscere le varie realtà. Nel primo anno ho incontrato ciascun sacerdote e ho ascoltato i laici. E ho elaborato un piano ecclesiale che non avesse scadenza annuale ma decennale. Poi mi sono inserito in punta di piedi nella realtà civile e sociale, avviando un confronto fin dal Giubileo 2000 che è stata la prima occasione di dialogo. Invitai a un convegno 1200 persone rappresentative del territorio a Teatro Nuovo e mi misi in ascolto. Da quella esperienza costituii un forum permanente con la società. Da allora riunisco qui da me due volte l’anno per un pomeriggio 14 persone rappresentative. Rispetto a 10 anni fa la città è cresciuta molto nell’attenzione alle povertà e alle problematiche connesse al lavoro: nella diocesi ci sono 600 centri di ascolto per dare aiuto ai poveri. Ho ascoltato lavoratori e imprenditori in decine di crisi aziendali, per incoraggiare la ricerca di soluzioni positive».

Insediandosi, disse che Torino aveva delle ferite aperte: sono rimarginate e se ne sono aperte altre?
«Oggi c’è la grande ferita aperta e sanguinante che la crisi finanziaria mondiale provoca in migliaia di famiglie. Cassintegrati, operai in mobilità, licenziati: molte famiglie che prima vivevano decorosamente con due stipendi ora sono magari senza reddito o con salari ridotti. Mentre il mutuo casa e la rata per l’auto restano».

E la Chiesa, oltre a stare vicino a queste persone, che cosa fa in concreto?
«Io cerco di aiutare i poveri grazie a una mia San Vincenzo, che ho trovato già organizzata. Ricevo tutti i giorni, anche oggi, tante richieste di aiuto. Per fortuna la San Vincenzo è strutturata in modo da andare a domicilio per verificare come dare aiuto nei limiti del possibile».

Quello che inizia potrebbe essere un autunno molto difficile per tanti, con decine di aziende che potrebbero non riaprire. E’ la situazione peggiore che ha vissuto?
«No, il momento peggiore fu quando si temeva che la Fiat non ce la facesse e potesse chiudere o fallire. Allora era peggio di oggi, con decine di migliaia di famiglie a rischio. Per fortuna Umberto Agnelli, succeduto al fratello Avvocato al timone della Fiat, prese la decisione giusta, investendo sull’auto. Da lì la svolta e poi l’arrivo di Marchionne e lo slancio degli ultimi anni. Il dialogo con la nuova dirigenza è meno formale di un tempo, e si entra spesso nel concreto».

Papa Wojtyla chiudendo la messa per il centenario della morte di don Bosco in piazza Maria Ausiliatrice nel 1988 invitò energicamente Torino a «convertirsi». La città si è convertita?
«Il Papa a pranzo manifestò un problema, e quell’invito forse nacque in quel contesto».

Che problema?
«Chiese a noi vescovi presenti: come mai una città così ricca di santi è anche così laica? Noi dicemmo: Santità, non pensiamo a nessuna causa particolare. E’ il frutto della storia passata, che ha lasciato tracce di laicismo poi consolidate. Io credo che tutti abbiano sempre bisogno di conversione. Il Papa, forse, avrà voluto dire: sono qui per ricordarvelo, e per invitarvi a non cancellare l’eredità dei santi. Da allora la situazione è migliorata. Ci sono ancora atei e gente che combatte i valori religiosi, ma ci sono più rispetto e considerazione nei confronti della realtà ecclesiale. Il clima di dialogo, pur su posizioni diverse, è sempre cresciuto».

Proprio a lei, per due anni e mezzo prete operaio autorizzato dal vescovo a Casale, è toccato celebrare i funerali dei 7 morti della Thyssen, la più grande tragedia del mondo del lavoro dell’Italia moderna. C’è stato un momento in cui ci si è scordati dei problemi dei lavoratori?
«Qui l’industria manifatturiera ha avuto e ha ancora grande spazio rispetto ad altri posti, ed è ben viva l’attenzione alle problematiche del mondo del lavoro. Indubbiamente quando capitano certe disgrazie le coscienze sono interrogate con più forza. Ancor prima della strage di dicembre, a giugno per San Giovanni, presi posizione contro la proprietà di quella fabbrica che aveva annunciato la chiusura per trasferire a Terni i dipendenti. Quando un’industria per qualche decennio ha insediato un suo stabilimento in un territorio ritengo abbia doveri di riconoscenza verso il territorio stesso. Questo concetto si è fatto strada, si veda quanto accaduto alla Indesit».

Ma è stato fatto qualcosa per migliorare la vita nei luoghi di lavoro? Anche l’Osservatore Romano ha a lungo tenuto la conta del numero dei morti sul lavoro, poi ha lasciato perdere.
«La prima cosa da fare, soprattutto nel campo dell’edilizia che ha il primato delle vittime, è la sicurezza della salute e della vita dei dipendenti. E lì le cose vanno migliorando. A Casale si muore ancora per il mesotelioma provocato dall’amianto della Eternit. Però ho anche visto come segni di progresso tre realtà produttive di Mirafiori - la linea della Grande Punto, il Centro Design e il Centro Produzione Abarth - che Marchionne mi ha chiamato a benedire di recente. Questi luoghi sono strutturati con un’attenzione particolare verso le persone».

Torino è ancora una città che fa carità, coltiva speranza e ha fiducia?
«Che faccia carità è fuori discussione, è la città della carità. Nessuna grande città ha strutture e disponibilità come la nostra. Vuole un esempio? Al Cottolengo c’è una donna di 86 anni, piccola di statura, che è stata portata lì quando ne aveva 6, e da allora non s’è mai mossa da questo luogo di carità. Realtà e storie come questa contagiano l’intera città, dai santi sociali ai giorni nostri. Un giorno Chiamparino mi ha detto: se tutte le parrocchie improvvisamente chiudessero io non saprei come tenere in piedi Torino. E’ un riconoscimento che il sindaco fa al grande ruolo della Chiesa nella città. Quanto alla fede, se guardiamo alla partecipazione alle messe domenicali siamo purtroppo a livelli molto bassi».

Dieci per cento?
«Circa, con situazioni a macchia di leopardo, da zone con il 2-3% al 10%, ma nei paesi si arriva anche al 40. Ma la fede non si può misurare solo così. Tanti tornano a messa al paese d’origine. Ma per fortuna quelli che vanno a messa sono più convinti di una volta. Quanto alla fiducia, certo non è periodo buono, con questa brutta botta della crisi… Molti si sono ritrovati a condizioni di vita che ritenevano superate, ma il mio messaggio è che bisogna credere alla Provvidenza. Il Padre celeste ci farà senz’altro uscire da questa brutta situazione».

E la crisi delle vocazioni?
«Non posso negarla. Il card. Fossati ordinava anche 30 sacerdoti l’anno, io uno-due se va bene. Il record è stato nove. Ma le vocazioni sono migliorate in qualità. Oggi quasi tutti i giovani che entrano in seminario hanno il diploma di maturità e la loro formazione è accurata».

Costruzione della moschea e sistemazione dei profughi, due casi aperti. Come risolverli?
«La Chiesa è per favorire l’accoglienza. Il diritto a emigrare è sacrosanto, ne hanno usufruito anche gli italiani. Ma sempre nel rispetto delle leggi e della legalità. Chi viene da noi per migliorare il tenore di vita deve avere la possibilità di trovare un lavoro e una vita decorosa. Quanto alla moschea penso che i musulmani abbiano diritto a un luogo di preghiera, ma secondo me deve passare ancora un po’ di tempo per costruire un minareto accanto a un campanile. Torino non è pronta. Nulla in contrario invece alle sale di preghiera, non li dobbiamo costringere a pregare in piazza».

La critica che l’ha ferita di più in questi 10 anni forse è stata per la costruzione della chiesa del Santo Volto, vero?
«Sì. Ho accettato le critiche ma sono andato avanti lo stesso anche perché avevo fatto una consultazione con il clero impegnandomi in anticipo ad accettarne l’esito. Il risultato fu un incoraggiamento ad andare avanti. Ora possiamo constatare che nel complesso del Santo Volto firmato da un architetto di fama come Mario Botta abbiamo realizzato una chiesa per una parrocchia di 13 mila abitanti, gli uffici della curia metropolitana, un centro congressi per 700 posti con un grande foyer e due piani di parcheggi. Il tutto senza chiedere offerte ai sacerdoti o ai fedeli, ma con il contributo di enti e fondazioni bancarie e con risparmi interni. Senza far debiti o intaccare le riserve diocesane».

E il momento più bello?
«La chiusura delle missioni diocesane, con 7 mila fedeli torinesi al pellegrinaggio e all’udienza del Papa per concludere l’anno di redditio fidei. Lì il Santo Padre annunciò l’Ostensione della Sindone dell’anno prossimo e ci promise che verrà a Torino».

Che ricaduta avrà sulla città l’Ostensione?
«Spero molto positiva. All’inizio pensavo di attendere ancora qualche anno, poi ho accolto le tante richieste ricevute anche per far vedere la Sindone dopo il restauro del 2002. Credo che la presenza della Sindone a Torino sia il segno che la città è benedetta da Dio».

Come sono i rapporti con gli enti locali?
«Con il Comune non ci sono mai stati contrasti, con la Regione - perché ha competenze diverse che abbracciano il campo sanitario e quindi anche etico - ci sono state a volte prese di posizione divergenti, ma sempre con rispetto delle persone».

Il pregio dei torinesi?
«Sono molto sensibili al rispetto delle istituzioni, forse retaggio dell’eredità sabauda. Pensano che le istituzioni, Chiesa compresa, sono cose serie. Con il passare degli anni ho scoperto una Torino migliore di quella che conoscevo prima».

E il difetto?
«Come potrei guardare la pagliuzza nell’occhio di gente che mi ha accolto così bene, senza prima vedere i miei limiti?».

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