lunedì 6 aprile 2009

«Tutti a Torino, qui si muore ancora»

http://www.corriere.it/cronache/09_aprile_05/torino_processo_amianto_record_df741562-2192-11de-b3cf-00144f02aabc.shtml

Il caso Le parti offese potrebbero essere oltre cinquemila
L'amianto e il processo dei record«Tutti a Torino, qui si muore ancora»
Da Casale 9 pullman per la prima udienza di lunedì. Sotto accusa la Eternit


DAL NOSTRO INVIATO
CASALE MONFERRATO (Alessandria) - Alla fine, forse. La signora Romana dice che solo quando il processo sarà finito riuscirà a piangere. Non lo ha fatto neppure ieri, quando le hanno portato una poesia per sua figlia, scritta dalla dottoressa che ha cercato di alleviarne le sofferenze. «La vuole leggere lei? Io non ci riesco». Romana Blasotti approfitta del silenzio che è sceso nel tinello e si alza. Va in cucina a preparare il caffè. Lo sguardo dell'ospite si posa inevitabilmente sulle pareti e sul ripiano della credenza, pieni di volti, in bianco e nero, a colori. Una delle foto più datate ritrae un gruppo di giovani che sorridono, con lei al centro. L'uomo che fissa l'obiettivo ha la fronte spaziosa, lo sguardo buono, le mani in tasca. Si sposeranno qualche mese dopo quello scatto. Mario, suo marito, fu il primo. Era l'unico della famiglia che lavorava all'Eternit. Si ammalò nel febbraio del 1982. «Quando il medico mi disse che aveva un tumore, non mi feci impressionare. "È un uomo forte, lo cureremo" gli risposi. "No, signora, non è possibile. Mesotelioma. Non c'è nulla da fare"».
L'amianto se lo mangiò in pochi mesi, morì anche lui come tutti, soffocato dal sangue e dall'acqua nei polmoni. Nel 1990 toccò a Libera, la sorella minore di Romana. Stessa malattia, stessa fine atroce e veloce. Nel 2003, a una giovane nipote e a una cugina. L'anno seguente, il destino ha in serbo il più schifoso degli insulti. Maria Rosa, sua figlia. «Fu lei a consolare me. Quando seppe la diagnosi, mi fece sedere e mi disse che dovevo farmi forza. Il processo che comincia lunedì? Vada a farsi un giro qui fuori. Se solo si riuscisse a far conoscere meglio la tragedia di Casale Monferrato, sarei contenta. Così non succederà più quello che stiamo vivendo noi». Ancora silenzio, nella casa affacciata su Strada Cavalcavia. Romana, presidente dell'Associazione dei familiari delle vittime dell'amianto, dice che nonostante i suoi ottant'anni lunedì ci sarà anche lei. Salirà su uno dei nove pullman che alle sette del mattino partiranno da piazza Castello, destinazione Torino.
Lunedì si comincia. Ecco, forse ha davvero ragione la signora Blasotti. Ci vorrà del tempo, per capire l'entità della piaga biblica che si è abbattuta su Casale Monferrato. L'Eternit nel cuore del quartiere Ronzone, che per cinquant'anni produce amianto. Gli operai che muoiono respirando il micidiale pulviscolo, nel silenzio della proprietà. La colata di cemento che nel 1986 sigilla la fabbrica della morte. La maledizione che continua, ogni anno una media di 55 decessi, ormai quasi tutti «cittadini» e non «lavoratori», gente che non aveva mai messo piede all'Eternit. Le microscopiche fibre di amianto hanno ucciso, uccidono e uccideranno ancora. Per provarci, a capire, possono servire anche i numeri del processo che comincia lunedì mattina a Torino, il più grande mai fatto in Europa per le morti cosiddette bianche. Le parti offese citate sono 2.889, un record. Il Tribunale fronteggerà la dolente invasione mettendo a disposizione l'Aula magna, e le due aule-bunker al seminterrato. Ma le migliaia di malati e di loro congiunti che chiederanno di costituirsi parte civile potrebbero raggiungere le 5.700 unità. Verranno anche da Cavagnolo, Rubiera in Emilia, Napoli, dove c'erano altri stabilimenti Eternit.
Trattandosi di un'udienza preliminare, la causa sarà a porte chiuse, ma con dentro una folla da stadio. La cittadella giudiziaria torinese ha dovuto preparare percorsi guidati per l'ingresso, mettere al lavoro la Protezione civile, organizzare un presidio medico, informatizzare il controllo delle identità. Gli imputati sono «lo svizzero» e «il belga», come li chiamano tutti a Casale. Stephan Ernest Schmidheiny e Jean Louis Marie Ghislain De Cartier De Marchienne, 61 e 88 anni, i due ultimi proprietari dell'Eternit. Sono accusati di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro e di disastro colposo. «L'amianto è una tragedia enorme e sottovalutata. L'infortunio sul lavoro, l'incendio come alla Thyssen, hanno un effetto immediato, anche mediatico. Ma quelle causate dall'amianto sono morti silenziose, è un killer che uccide anche a trent'anni di distanza». Raffaele Guariniello, sempre lui. In tanti lo considerano un rompiscatole. Poi uno va a vedere e certe inchieste difficili le fa solo il procuratore torinese ossessionato dall'igiene. Così silenzioso, l'assassino invisibile, da occultare anche le sue vittime.
C'è un fascicolo che riguarda altre 200 morti sospette. Gente che si è spenta tossendo sangue, senza sapere a chi dare la colpa. Tutti destini che non sapevano di avere la strada segnata. «La cosa tremenda è che nel 1990, quando eravamo in Russia, Ornella si era ammalata, morbo di Hodgkin. Conseguenza di Chernobyl, così ci dissero. Era poi guarita, ma da allora ogni sei mesi faceva la Tac e tutti gli altri controlli. Il male invece è rimasto nascosto, invisibile. Quando ce ne siamo accorti, era già tardi». Emanuele Novazio è un giornalista de La Stampa, anche lui casalese, come Giampaolo Pansa, che per primo ha raccontato la sua storia, sul Riformista. Sua madre morì nel 1986, mesotelioma pleurico, dopo una vita passata non in fabbrica, ma in un ufficio del centro. Nel 2005 è toccato a Ornella, l'inseparabile moglie, la madre dei loro due figli. Lo aveva raggiunto a Parigi nel 1983, e da allora avevano vissuto insieme. A Mosca, Bonn, Berlino, sempre a migliaia di chilometri da quella maledetta fabbrica. Niente da fare. Il nome di Ornella è uno degli ultimi aggiunti alla lista compilata da Guariniello. «Ogni settimana muore qualche mio concittadino che conosco. Non sai a chi tocca, sai però che succederà. Una pestilenza». Novazio non aggiunge altro, certe volte le parole non vengono proprio. «Ci aspettiamo solo un po' di giustizia», dice Bruno Pesce, l'ex operaio che ha consacrato la sua vita a questa lotta, a questo processo. Aspettare, per poter magari tornare a piangere dopo aver versato ogni possibile lacrima. Come fa la signora Romana nella sua casa piena di centrini e di ricordi, di sorrisi che rimangono vivi solo nelle foto e nella memoria, come fanno molti altri ancora, in questa tremenda Spoon river a due passi da casa nostra.
Marco Imarisio

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